INTRODUZIONE
A fronte della crescente standardizzazione dei prodotti e dell’omogeneizzazione delle caratteristiche strutturali, degli aspetti funzionali, delle performance obiettivo di alternative di mercato, la pubblicità e la creazione di un’immagine svolgono una funzione più ampia della mera sollecitazione alle vendite.  Il loro compito è divenuto quello di attribuire caratteristiche differenziali a prodotti sempre meno riconoscibili l’uno dall’altro e di valorizzare la marca rispetto al generale appiattimento di caratteristiche distintive riscontrabili da parte del consumatore. Le immagini aziendali svolgono il ruolo di riscattare i prodotti e i servizi da una crescente banalizzazione conseguente sia alla diffusione massiva e interclassista degli stessi, sia ad un altrettanto espansiva omologazione dei beni al momento della produzione. 
Si è superata la fase della soddisfazione dei bisogni primari: il consumo è diventato segno. I significati intangibili sono diventati progressivamente più importanti, tanto da permettere al sociologo e scrittore britannico  Raymond Williams di affermare che viviamo nella società meno materialistica che sia mai esistita. Le caratteristiche sovrastrutturali giocano un ruolo di primo piano nella scelta dei beni e dei servizi, l’individuo è orientato a scegliere le proposte di mercato sulla base dei loro significati immateriali. I prodotti assolvono alla funzione di indicatore della collocazione dell’individuo nella gerarchia degli status. Si aggiunge l’elemento fondamentale nello staning, il prestigio sociale, e viene richiesto un metalinguaggio degli oggetti che vada al di là del loro valore d’uso. Generando una funzione maieutica nei confronti di oggetti inanimati, il nostro compito è quello di far emergere la desiderabilità individuale, il senso sociale, e trasformarli in mezzo di comunicazione. La scelta dell’identità rappresenta un obiettivo tutt’altro che acquisito, diviene meta esistenziale volta a coinvolgere l’individuo alla ricerca di un’immagine di sé socialmente gratificante. Negli ultimi anni una cultura narcisistica ha privilegiato l’uso simbolico di beni e oggetti al fine di comunicare all’individuo e agli altri, ridotti a platea, la nostra identità. In questo quadro Pinolina si propone come il miglior compagno di vita del consumatore, svolgendo funzione di caratterizzazione.

CONTESTUALIZZAZIONE
In una società impersonale, veloce ed ana-emotiva, educata al funzionale e priva di cultura visiva ed educazione estetica, dal 2011 indisturbato si fa spazio Snapchat, il nuovo social network dove condividere quel che vuoi, a patto che duri pochi secondi. Mentre Facebook ed Instagram continuano imperterriti la guerra a colpi di like e di filtri, Snapchat punta sulla spontaneità di  un mondo senza responsabili. Che sforzo fare nello scrivere, nello scattare, nel registrare, se di questo istante non si avrà alcun tipo di memoria? Il rischio è quello di precipitare in un tunnel senza uscita di pochezza morale ed incapacità decisionale. Il quotidiano britannico “The Indipendent” ha pubblicato un articolo basandosi su diverse ricerche, che testimoniano quanto il passare quotidianamente numerose ore di fronte ai social network renda meno importanti gli obiettivi morali. Il web sta cambiando il modo in cui pensiamo, leggiamo e ricordiamo le cose. Nel 2013 un’università del Wisconsin ha pubblicato uno studio nel quale veniva dimostrato che i ragazzi più social-addicted risultavano essere anche i meno inclini a scegliere come propria la risposta “voglio vivere una vita con principi etici”. Nicholas G. Carr, nel saggio chiamato “The Shallows” affronta e discute l’argomento. La causa del cambiamento? La velocità della comunicazione senza tempo di digestione.  Le domande rischiano così di perdere d’importanza, quando la risposta è di facile arrivo come nell’epoca del web. La conseguenza diretta è un calo drammatico del pensiero riflessivo. In uno scenario come questo, la fotografia pinhole si propone invece come freno ad un mondo che corre sempre più veloce, sempre più da nessuna parte.  Quel mondo che non ci aspetta è deciso a lasciare indietro ogni azione non produttiva, ma forse non siamo tutti d’accordo. Una produttività preferita all’estetica, alla ricerca, alla composizione, al pensiero. Una produttività che produce solo impersonalità. Tuttavia l’intensità di alcuni individui ancora non si rassegna. La pinhole, nata come primo antenato della camera fotografica, vive dispensando quel tempo di cui in realtà disponiamo tutti, ma siamo troppo impegnati a rincorrere una vita inconsistente per accorgercene. Piccola apertura come molte altre  che esistono in natura, prima d’esser mezzo, il foro stenopeico è simbolo. Mentre nella fotografia digitale ed in quella analogica, la selezione è cosciente e consapevole, in quella pinhole, che non fornisce il lusso del mirino, è tutto fuorché volontaria. Lo scatto è dato dal coraggio di imprimere su pellicola una porzione di mondo a noi sconosciuta, costretti a vederla nel cuore, sorprendendoci di dettagli mai notati prima, davanti al risultato finale. Chi crede nella perfetta definizione dell’immagine è soggetto ad una insolita forma di cecità, non visiva bensì emotiva che gli impedisce di apprezzare questa particolare tecnica. L’assenza di un obiettivo fa sì che la costruzione dell’immagine risulti scomposta, i colori e le luci al centro, i bordi vittime di oscurità. Le proporzioni degli elementi perdono qualsiasi rapporto, i soggetti risultano irriconoscibili. Il fotografo è costretto a spogliarsi nudo davanti al mondo, il tempo perde di consistenza e l’universalità della foto di valore. Il passato smette di essere passato, ed il presente non è del tutto presente. La fotografia stenopeica è riproposta come cura contro un mondo che non lascia spazio né tempo a chi ha bisogno e desiderio di vivere ogni attimo con più intensità.  Un mondo che non lascia spazio a chi desidera un tempo dilatato, nel quale potersi sedere e guardare i movimenti bizzarri di chi non ha tempo di chiedersi se sta diventando chi realmente è. Un mezzo interessante per capire chi si è piuttosto che mostrare agli altri cosa si fa.


ANTIFRAGILITA' COME CATEGORIA
Nel giungo del 2013 Nassim Nicholas Taleb, filosofo, saggista e matematico, usciva dal terminal degli arrivi internazionali del JFK di New York quando realizzò che tra l’invenzione della ruota e l’applicazione della ruota sulle valigie da viaggio erano passati niente di meno che 6000 anni. Centinaia e centinaia di intellettuali in questi anni sono partiti per conferenze in mondi lontanissimi, trattando fantamodelli, ipotesi di Reiman, Quark e Quark d’Egitto, commettendo tutti il medesimo errore di non applicare la propria intelligenza per risolvere un problema universale. C’è un interevento interessante fatto da Ken Robinson alla conferenza xTED che spiega quanto le istituzioni che dovrebbero formarci in realtà siano le prime responsabili della morte della creatività. La standardizzazione e la metodicità hanno portato l’uomo contemporaneo all’ossessione stilistica e alla predilezione di oggetti in grado di prometterci la perfezione. Tuttavia, se si potesse prevedere con esattezza l’andamento delle nostre giornate probabilmente inizieremmo tutti a sentirci un tantino morti. Con l’ottenimento immediato di ogni informazione richiesta, viene a mancare la fase di ricerca che una volta permetteva la crescita e lo sviluppo di un percorso progettuale talvolta alternativo. La durata della necessità è talmente breve da non poterci permettere più parlare di “necessitas magistra”. Invece dovremmo comprendere l’importanza della casualità al fine di raggiungere nuove scoperte ed è per questo che l’antifragilità risulta necessaria. Al fine però di capire a fondo il concetto, sarebbe bene fare un chiarimento riguardo le categorie di fragile, antifragile e robusto. La nascita del concetto di antifragile e la divisione del mondo nelle tre categorie, è da attribuire a quel filosofo che, poche righe fa, si trovata a New York, Nicholas Taleb. Nel suo libro datato 2012, “L’antifragile”, egli pone l’accento su tutte quelle cose nel mondo che traggono vantaggio dagli scossoni, prosperano e crescono quando sono esposte alla volatilità, al caso, al disordine ed ai fattori di stress, chiamandole “antifragili”. Il robusto, se sottoposto ad uno shock rimane identico a se stesso mentre il fragile tende a disintegrarsi. È antifragile tutto quel che muta e migliora nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo economico, le buone ricette e, nel nostro caso, la sopravvivenza e l’efficacia di team, aziende e prodotti.  Parlando di fotografia, individuiamo la fotografia stenopeica come tecnica esemplare al fine di comprendere il concetto di antifragilità e come tecnologia difficilmente tramontabile. Separando quel che è deperibile (esseri umani, oggetti) da quel che non lo è (ciò che è potenzialmente eterno), ci si può aspettare o che entrambe le categorie abbiano la stessa aspettativa di vita residua o che la vecchia ne abbia una maggiore, in proporzione all’età relativa di entrambe. Se la vecchia tecnologia ha 80 anni e la giovane 10, ci si può ragionevolmente aspettare che la prima viva otto volte più della seconda. Per il deperibile ogni giorno di vita in più si traduce in aspettativa di vita più breve. Per il non deperibile ogni giorno di vita in più implica un’aspettativa di vita più lunga. Più una tecnologia vive, più a lungo ci si può aspettare che viva, e solo questo sarebbe sufficiente a convincere che la fotografia stenopeica sopravviverà per ancora molti anni. 
Oltretutto, la fotografia stenopeica porta con sé un altro grande vantaggio, ovvero la costruzione artigianale. Nella società contemporanea siamo affetti da un effetto chiamato “tapis roulant”. Studiato da Danny Kahneman, consiste nel fenomeno per il quale, a seguito di un acquisto, le persone percepiscono un picco iniziale di profonda felicità dopo del quale si torna rapidamente al livello di benessere di base con conseguente ricerca di “una nuova cosa nuova”.  Tra l’altro, sembrerebbe che con l’arte classica ed i mobili antichi (e tutto quel che non posizioniamo nella categoria del tecnologico) questa tecnoinsoddisfazione da effetto tapis roulant non venga riscontrata. 
In una stanza della nostra casa potremmo avere al tempo stesso un dipinto ad olio riguardante un’imitazione di una classica scena fiamminga ed un televisore a schermo piatto. Sicuramente non sentiremo alcuna necessità di modernizzare il dipinto, ma presto il bisogno di cambiare il televisore a favore del nuovo modello sarà impellente. Un altro esempio può essere compreso se ci mettiamo a pensare al momento nel quale dobbiamo prendere degli appunti. Non è evento singolare che non ci preoccupiamo più di tanto dello stato delle nostre penne, alcune molto vecchie altre appena comprate. Non ci preoccupiamo particolarmente neanche delle variazioni della carta. Tuttavia nel momento in cui bisogna scrivere in forma elettronica, ci preoccupiamo che la nostra versione del Mac sia quella più adatta per questo lavoro, del font da utilizzare, della dimensione e dell’interlinea.  Emerge una strana contraddizione tra il mondo virtuale e quello reale, che concerne il modo in cui percepiamo gli oggetti. Possiamo prendere come esempio gli e-reader. Per molti, più efficace del libro. 
Consente di accedere ad un’intera biblioteca concentrata su di un solo apparecchio, ottimizzando tempo e spazio. Tuttavia nessuno di noi si ferma a riflettere sulle enormi differenze che esistono tra e-reader e libri cartacei: l’odore, la consistenza, le dimensioni (i libri sono tridimensionali), il colore, la possibilità di voltare pagina, la fisicità di un oggetto rispetto allo schermo di un computer. Il dibattito lo concentriamo sempre sugli elementi comuni (quanto è simile al libro questo meraviglioso dispositivo), eppure quando poi ci troviamo a paragonare il nostro ultimo apparecchio tecnologico con un’altra versione dello stesso ci soffermiamo su delle differenze minimali.
Proprio come un leccese che incontrandosi con un barese si concentra sulle variazioni dei loro dialetti, ed invece di fronte ad uno spagnolo si sofferma sulle somiglianze. C’è un’euristica che potrebbe aiutarci a categorizzare questi oggetti. primo, il pulsante elettronico di accensione e spegnimento.  Qualunque oggetto abbia un interruttore “on” e “off” da premere dovrà necessariamente rientrare in una categoria.  Quando si ha a che fare con questi oggetti ci si concentra sulle variazioni, con relativa neomania.  Considerate però la differenza tra artigianale e industriale. Gli oggetti fatti a mano contengono l’amore che l’artigiano vi ha infuso e tendono a soddisfare chi li utilizza: non c’è la fastidiosa e persistente impressione di incompletezza che proviamo nei confronti dell’elettronica. Tra l’altro si dà anche il caso che tutto quel che è tecnologico sia anche fragile. Gli oggetti realizzati da un artigiano causano meno effetti tapis roulant e tendono a possedere una certa antifragilità proprio come delle scarpe artigianali che impiegano mesi prima di diventare comode.  Gli oggetti dotati di un interruttore tendono a non avere questa dote di antifragilità. Con il passare degli anni stiamo rendendo più fragili perfino i sistemi sociali ed economici perché neghiamo loro fattori di stress e casualità collocandoli nel comodo letto di Procuste della modernità. Nella mitologia greca Procuste era un locandiere che per fare in modo che i viandanti stessero a misura nel suo letto amputava gli arti di quelli troppo alti e allungava quelli delle persone troppo basse. Otteneva così un letto che si adattava perfettamente ad ogni ospite.  Quello che dobbiamo perdere è il vizio di prediligere l’ultimo modello al modello più adatto, smettere di adattare lo strumento allo scopo, la tecnologia all’espressione.
Progetto Tesi di Laurea Triennale in Graphic Design & Art Direction
NABA - Nuova Accademia di Belle Arti (Milano)
Elisa Di Dato Claudia Pace Marco Signorile


Ringraziamenti:

(Elisa)
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(Claudia)
A Marco ed Elisa, senza i quali oggi non sarei qui.
A Mio Fratello, per sempre il più importante.
​​​​​​​Ad Anita, la mia persona, e le amicizie per la vita.
A Ines, Barcellona, ed al tempo che si prolungherà.
A Chiara, che in questi tre anni è diventata più forte di me.
A Damiana, e all’amarsi prima d’amare.
A Silvia, il capo del famoso fan club di Tim il Puritano.
A Silvia, e la linea gialla dove mirare.
A Fabiana Datri, Antonio Zimarino, Stefania Magini e Letizia Di Girolamo, e ad una scuola diversa che ti insegna a vivere e a muoverti nel mondo.
Ad Antonio Capone, e chi ti convince a camminare sulle tue gambe. 
A Chiappa, Alex e Lucino, che non mi hanno permesso di essere triste e hanno avuto una pazienza incredibile.
A Gian, che non mi lascia mai ma un Tonno lo resta sempre.
A Baffo, le affinità elettive e le passioni condivise.
A Lola e Sean, che hanno aiutato me a crescere molto più di quanto io abbia aiutato loro.
A Lorenza, e le battaglie contro i pregiudizi che vinceremo.
A Michele, che raggiungerò sempre, in ogni parte del mondo.
A Stefano, che mi aspetta in Australia e si sposerà presto.
A Till, e all’importanza dell’integrità.
A Luca, e chi ti conosce perchè infondo ti somiglia.
Ai tempi sbagliati con le persone giuste. Alle panchine di notte. Ai chilometri che separano, ma mai per davvero. Alla pazienza dell’aspettare. Al coraggio per crederci di nuovo.
A Mia Madre, alla quale spero un giorno di assomigliare, e alla pazienza con la quale mi ha tirata sù. 
A Mio Padre, al quale già somiglio, e alle seconde possibilità nelle quali sto imparando a credere. 
Alla mia famiglia, per avermi insegnato il rispetto, la diversità, la convivenza, l’affetto. Per essere sempre stati una base ed una sicurezza, una casa sparsa per il mondo che tutti meriterebbero di avere ma che pochi possono vantare. Al Sud che scalda il cuore ed illumina gli occhi.
A mio Nonno, che ci sarà sempre anche se non può esserci più, al quale devo tutto quello che sono diventata ed il quale è stato tutto quello che vorrò mai essere. E alla fine grazie anche a me stessa, per non aver mai, mai perso la speranza.

(Marco)
Ringrazio innanzitutto le mie due compagne di tesi, Claudia ed Elisa, che sono state amiche e colleghe e amanti. No scherzo. Grazie a Claudia, che con il suo metodo hitleriano mi ha velocizzato e ora rendo dieci volte di più. Grazie a Elisa, che mi ha fatto scoprire Spotify e che con i suoi squittii mi faceva preoccupare. E' stato un percorso altalenante, ma è grazie a loro che ce l’abbiamo fatta. Abbiamo riso, pianto, litigato, scherzato, ci siamo insultati, odiati, non abbiamo mangiato, dormito, puzzavamo, ci siamo tirati addosso le sedie, il cibo, i computer, i mouse e le chiavette usb. Grazie a loro ho scoperto una pazienza che non pensavo di avere. Vi voglio bene, ma vorrei uccidervi. A mia madre Mara, che ogni mattina mi chiedeva cosa dovessi fare e se volessi il pranzo da portare via, ma io le rispondevo solo ogginusn abuf fksl gl... Grazie per la tua pazienza, la tua preoccupazione, il tuo amore. A mio padre Aldo, che ha un figlio di 22 anni e ancora gli paga la scuola. Ti prometto che sarò io a regalarti una macchina d’epoca. Un giorno. A mia sorella Laura, che spero guarisca presto, e torni ad abbracciarmi. Magari con una bella londinese. A mio zio Marco, con il quale mi devo scusare se in questi giorni non gli sono stato abbastanza vicino. A mia nonna Mirella, grazie. Al mio amico Gabri, che non iniziava la giornata senza la sua domanda la mattina: “Oggi ci sei Defro?”, e la mia ovvia risposta: “Devo finire delle robe”. E il suo seguente sfogo.
Al mio amico Branda, che mi vuole bene da lontano. A Fabio, Ale e Paolo, grandi amici e grandi compagni di avventura, grazie per i tre anni passati insieme e grazie per esserci sempre stati, per avermi accompagnato, avermi sopportato e avermi fatto ridere davvero. Grazie a Paolo, che con i suoi “Porrccoggiud” ci ha sostenuto durante gli esami. 
Grazie ad Ale, che con la sua voce si faceva sentire anche per Paolo. E non per ultimo, grazie a Fabio, sorprendente compagno in questo viaggio. A Lorenza e Martina, le persone più scoppiate e svogliate che abbia mai conosciuto, ma grandi amiche. A tutti i miei amici Caccia, Federico, Elisa, Nicole, Andrea, Lord, Ste, Chiara, con i quali avrei voluto uscire un po’ di più. Ringrazio soprattutto Caccia per avermi prestato un paio di volte il badge del Politecnico, e Chiara per la casa. Ai miei “compagni di classe”, Enrico, Fabri, Ste, Carolina, Luca, con i quali ho stretto troppo poco, ma sono stati importanti in questi anni, e a cui auguro il meglio. Ringrazio particolarmente Fabri, perchè in alcuni momenti bui è riuscito a tirarmi su. A sua insaputa. A tutte le persone che ho conosciuto nel periodo di preparazione alla tesi, soprattutto Fil e Loris, scusate, non sono così. Avrei preferito conoscervi in un altro momento. Dunque io ringrazio tutti quanti, specie la mia mamma che mi ha fatto così funky.
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